Il 10 gennaio 2024 è stato sottoscritto un accordo a livello nazionale tra i dirigenti di RFI, gruppo Ferrovie dello Stato, e molte delle sigle sindacali (CGIL, CISL, UIL, UGL, FAST, ORSA), sulla base del quale veniva sancita una riorganizzazione del comparto manutenzione infrastruttura che, per diventare effettivo avrebbe dovuto essere ratificato con specifici accordi territoriali dalle componenti aziendali e dalle rappresentanze sindacali unitarie. In alcune regioni tali accordi sono stati firmati, in altre non è stato possibile raggiungere una posizione condivisa, si è arrivati ad una rottura delle trattative e ad una conseguente situazione di stallo. A partire dal 3 giugno nelle regioni “ribelli” l’azienda ha imposto in maniera unilaterale un nuovo orario di lavoro per tutti gli addetti alla manutenzione infrastruttura, un nuovo orario che oltre a sconvolgere completamente la vita dei lavoratori, introducendo turni che di fatto impediscono la possibilità di avere un riposo adeguato tra una prestazione e l’altra, aumentano il numero delle notti, distribuiscono i carichi di lavoro senza tener conto delle esigenze legate allo svolgimento delle attività, costringono gli operatori a spostamenti sempre maggiori, sono strutturati con nastri orari lunghi e pesanti, 7 ore e 36 continuative, che coprono anche le pause pranzo o cena, senza prevedere la possibilità di usufruire del pasto, non lasciano nessun fine settimana libero e oltretutto, essendo soggetti a possibili, continue e repentine modifiche azzerano totalmente il diritto di programmare con serenità la vita privata dei manutentori. L’azione unilaterale in questione con l’arbitraria imposizione del nuovo orario non appare giustificata e funzionale nemmeno per raggiungere, gli obiettivi sbandierati dall’azienda, più per propaganda che per effettiva convinzione.
Senza entrare in dettagli tecnici, la dichiarata volontà di aumentare sia qualitativamente che quantitativamente gli interventi di manutenzione risulta di difficile attuazione se si pensa, solo per citare alcune difficoltà, alla condizione dei mezzi ferroviari a disposizione, al processo di professionalizzazione dei nuovi assunti, alla mancanza di tracce orarie libere da treni nelle quali intervenire, alla riduzione del numero di manutentori presenti per squadra in ogni turno che non consente lavorazioni complesse. Tutte problematiche che, forse, verranno risolte nel corso di diversi anni, ma che al momento rendono inefficace, se non controproducente il nuovo orario. La stessa esigenza di avere pronti, nei vari presidi, agenti in grado di intervenire in caso di guasti e anormalità per ripristinare rapidamente la circolazione dei treni, appare poco convincente, sia perché sono attualmente sempre previste squadre di reperibili pronti ad attivarsi h24, sia perché i tempi di risoluzione di eventuali guasti, nel caso di agenti già presenti negli impianti, non sempre garantirebbe tempi di ripristino più rapidi, ma addirittura in certi casi li dilaterebbe. Considerazioni negative anche per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro e la prevenzione di incidenti e infortuni degli operatori, oltre che per le ripercussioni che subiranno gli operai delle ditte appaltatrici e subappaltatrici, che si vedranno giocoforza costretti ad adeguare i propri orari di lavoro a quelli dei dipendenti di RFI, con condizioni di tutela ancora minori e con disagi maggiori.
Nonostante tutto ciò RFI ha deciso di procedere unilateralmente provocando notevole malcontento e agitazione tra i lavoratori. La risoluzione di questa complessa e spinosa situazione sarà affidata a cause legali, vertenze sindacali, scioperi (uno dei quali proclamato lo stesso giorno dell’entrata in vigore del nuovo orario), azioni di lotta, e a qualunque iniziativa possa essere utile per far recedere l’azienda da questa imposizione arbitraria e apparentemente immotivata, che, sarà forse un caso, viene resa esecutiva proprio la settimana precedente le elezioni europee e in concomitanza con le voci di una possibile privatizzazione di parte della società.
Al di là del fatto in se stesso, questa vicenda è emblematica e rivelatrice di molti dei meccanismi che governano i processi decisionali all’interno del mondo produttivo, delle dinamiche sottese a tali processi, della progressiva trasformazione dei tradizionali rapporti tra gli attori in gioco, dell’apparente impossibilità da parte di chi subisce una contrazione di diritti o un peggioramento della qualità della vita di opporvisi efficacemente con la speranza di ottenere un qualunque risultato, della parziale incapacità del mondo istituzionale, comunque lo vogliamo intendere, di intercettare le istanze provenienti dal basso e tradurle in azioni che non siano meramente propagandistiche o solo formali, ma che incidano concretamente e diano risposte sostanziali. La trasformazione del “vecchio padrone” in un’entità impersonale, lontana e inafferrabile ha comportato la difficoltà oggettiva del confronto su tematiche strettamente inerenti al lavoro, alle sue problematiche e alle sue specificità; i vari dirigenti preposti di volta in volta a rappresentare la parte datoriale, essendo sempre più spesso estranei al processo di produzione, si limitano a elaborare algoritmi, basati su modelli generali che non tengono minimamente conto della realtà effettiva, che tendono a concepire i singoli lavoratori come una massa informe di individui sovrapponibili e interscambiabili a piacimento, favorendo e auspicando la creazione di una classe operaia composta da meri esecutori, robotizzati e lobotomizzati, di direttive imposte, un insieme di cloni distinguibili uno dall’altro solo in base a una matricola, la vita privata dei quali, così come le aspirazioni, gli interessi, i desideri, gli affetti e tutto ciò che caratterizza l’essenza di un individuo, esistono solo e in funzione dell’utilità produttiva e sono completamente assoggettati ad essa. Questi dirigenti e funzionari, legati da contratti che vengono rinnovati solo se portano a termine determinati compiti imposti da coloro che realmente hanno poteri decisionali, sono da una parte determinati a ostentare un potere che in realtà non possiedono o che è loro concesso solo temporaneamente e a determinate condizioni, e dall’altra a svincolarsi dalla responsabilità delle decisioni che sono tenuti a prendere, oscillando tra un: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare” di dantesca memoria e un molto più sinistro e norimberghiano: “Abbiamo solo eseguito gli ordini”.
Questa apparente impersonalità e anonimità del potere rende complicato opporsi alle direttive imposte, anche se palesemente in contrasto con leggi, contratti, accordi e buon senso, rendendo frustrante ogni tentativo di farlo e finendo per scoraggiare chi vorrebbe far valere i propri diritti o comunque porre un freno a quelli che vengono percepiti come abusi arbitrari.
A tutto ciò si aggiunge una grave crisi di rappresentanza e una difficoltà nell’intercettare il malcontento di chi si sente nell’impossibilità di far valere le proprie istanze, di rivendicare i propri diritti, di manifestare le proprie perplessità e di protestare, da parte dei soggetti istituzionali, siano essi partiti, movimenti o sindacati, deputati a farlo e a trasformare questa inquietudine in politiche concrete, in azioni tangibili, capaci di dare risposte sostanziali e di agire sul piano reale, ridando dignità a una Politica che non sia più esclusivamente una sorta di reality show dove l’importante è apparire accattivante agli occhi dei votanti, ma che torni a occuparsi dei problemi reali e delle persone, anche se questo comportasse la perdita di consenso elettorale. Sempre più spesso la sfiducia verso questi soggetti diventa tale che essi stessi vengono percepiti come un’ulteriore controparte da cui bisogna difendersi e tutelarsi, perché se non collusi, appaiono spesso almeno contigui e in simbiosi con coloro che detengono il potere decisionale. Questa difficoltà a individuare una reale controparte con cui intavolare una discussione, unita alla sensazione di non essere rappresentati efficacemente da nessuna istituzione, ha comportato un’atomizzazione di quella che una volta veniva definita classe operaia, la conseguente convinzione che non possa più esistere un’azione collettiva in grado di migliorare le condizioni di lavorative e di vita, ma che ognuno debba ricercare una soluzione personale, una scappatoia individuale, in una sorta di sogno americano al ribasso, una specie di cultura generalizzata da gratta e vinci in cui ognuno cerca di risolvere da solo un problema che può essere affrontato solo collettivamente, e così facendo contribuisce senza volerlo o senza esserne cosciente a peggiorare ulteriormente la condizione generale.
Parallelamente, e anche grazie a questo, si assiste sempre più frequentemente a un’estrema arroganza nell’esplicazione del potere stesso, che si manifesta senza nessuna remora o timore di calpestare leggi, diritti, norme, usanze o consuetudini acquisite, senza preoccuparsi dei possibili effetti e delle ripercussioni sulla vita di chi lo subisce, come se fosse onnipotente, immune a qualunque controllo, obiezione o opposizione, e allo stesso tempo assolutamente sicuro della propria impunità e della propria invulnerabilità. Il momento in cui viviamo appare sempre più, in questo senso, come un nuovo Medio Evo, in cui la realtà data si mostra immutabile e intrasformabile, non in quanto diretta emanazione della volontà divina, ma perché non riusciamo nemmeno più a concepire nessuna alternativa ad essa, in cui chi sostiene l’ingiustizia della società e la necessità di trasformarla è tacciato di eresia e messo metaforicamente al rogo, reso invisibile o perseguitato, esposto alla gogna mediatica o trasformato in una caricatura per screditare e deridere ciò che sostiene e rivendica.
Esiste un modo o anche solo una possibilità per sfuggire a tutto questo? Possiamo fare qualcosa per contrastare questa deriva che da una parte ci opprime e dall’altra ci fa sentire impotenti prima e rassegnati poi?
Chiaramente non ci sono soluzioni preconfezionate ne tantomeno formule miracolose e generali che valgano per tutti i casi e tutti i momenti, ogni situazione ha la sua specificità e le sue caratteristiche peculiari e da queste è necessario partire per inventare una strategia, allo stesso modo non è pensabile cercare di imporre dall’esterno soluzioni pronte all’uso che prescindano dalle condizioni e dalla volontà di coloro che sono direttamente interessati a opporsi a una data realtà, non si può sostituire un potere con un altro, ma liberarsi del concetto stesso di potere.
Ci sono però delle considerazioni generali che possono valere per tutti i casi anche se poi andranno necessariamente declinate situazione per situazione. Prima di tutto è indispensabile convincerci che la realtà che ci troviamo di fronte non è l’unica possibile, che esistono alternative, non facili da realizzare o anche solo da immaginare, ma che esistono, già il fatto di pensare che ciò che ci viene presentato come l’unico mondo possibile non sia in realtà immutabile, ma in qualche maniera plasmabile dal nostro agire, lo rende meno “divino” e allo stesso tempo rende le nostre azioni meno vane, i nostri comportamenti più consapevoli, la nostra volontà più determinante, per citare Adorno: ”Solo se ciò che c’è si lascia pensare come trasformabile, ciò che c’è non è tutto”. In secondo luogo è necessario immunizzarsi dall’assuefazione all’ingiustizia, dobbiamo tornare a indignarci e a ribellarci ogni qual volta si palesi qualunque sopruso da parte del potere, senza pensare che sia inutile, senza pensare che non riguardi noi, senza pensare che sia meglio non immischiarsi perché in fondo non è un affar nostro, senza aspettare che si muova qualcuno ad indicarci la via, dobbiamo scrollarci di dosso l’apatia e l’indifferenza, dobbiamo farlo sempre più spesso, spontaneamente e continuamente, in ogni ambito e situazione, in modo da creare un’attitudine alla ribellione e un movimento sempre pronto a opporsi ogni volta che viene calpestato un diritto o compiuto un atto di prevaricazione da parte di chi detiene il potere, come cantava De Andrè; “certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza, ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza, però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”.
Infine è necessario ricreare la possibilità di un’azione collettiva e comune, una “coscienza di classe”, o in qualunque modo vogliamo chiamarla, partendo dalle esigenze reali e concrete della quotidianità, e dai luoghi dove il potere reale si manifesta, togliendosi la maschera accattivante che indossa durante le cerimonie ufficiali o nei salotti istituzionali, e palesando la sua vera essenza e la sua brutale natura, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, nelle periferie urbane, nelle campagne isolate, a contatto con le realtà apparentemente “altre”, nei circoli culturali, nei centri sociali e partire da qui per contrastarlo, sempre, e fare della ribellione una condizione dell’esistenza umana, perché solo attraverso essa e il rifiuto di ogni arbitrarietà e prevaricazione del potere possiamo affermare di esistere come individui liberi e da qui costruire una coscienza collettiva mai più disponibile ad accettare passivamente le imposizioni e i soprusi, passare dal “mi ribello quindi sono” al “mi ribello quindi siamo”, perché sempre citando Camus: “La coscienza viene alla luce con la rivolta”.
Alessandro Fini